Pietre Vive, casa editrice che fiorisce a Locorotondo
LIBRI
Intervista ad Antonio Lillo, direttore editoriale di Pietre Vive Editore
di Donatella Serio
C’è chi il lavoro da editore lo sa fare e lo fa bene con passione e competenza e, se dirige una piccola casa editrice di un piccolo paese del Sud Italia, forse anche con un pizzico di incoscienza (il metro con cui si misura l’amore per ciò che si fa).
È il caso di Antonio Lillo, direttore editoriale di Pietre Vive, realtà editoriale che opera sul nostro territorio da circa vent’anni, promuovendo ogni tipo di narrazione, purché originale e ricercata, riservando un’ampia fetta del proprio catalogo alla poesia e all’arte.
Partiamo dal principio, com’è nata e come si è evoluta la casa editrice Pietre Vive?
“Pietre Vive ha tre diverse date di nascita. Nel 2002 nasce come associazione a carattere politico, nel 2006 diventa editrice di una testata locale, Largo Bellavista, e poi nel 2013 si converte a casa editrice vera e propria.
Io ci sono entrato nel 2007 e, come dico sempre, non ho creato un bel niente”.
Pietre Vive, ossimoro suggestivo. Qual è, se c’è, il legame tra questo nome e il vostro progetto editoriale?
E cosa rappresenta il logo?
“Così come l’associazione, ho ereditato anche il nome da chi è venuto prima di me che penso avesse in mente sia la nostra architettura in pietra a secco sia il messaggio evangelico.
Preferisco legarlo all’immagine di un particolare tipo di pianta grassa del deserto, la lithops, che per il suo aspetto è nota come ‘pietra viva’. Resiste in condizioni estremamente disagevoli e riesce a produrre, una volta all’anno, un fiore bellissimo di colore bianco o giallo. Come quel cactus, la mia idea è quella di una piccola pianta testarda che, nonostante il paesaggio svantaggioso (il Sud, per eccellenza), riesce a creare qualcosa di piccolo, semplice e bello, com’è un fiore nel deserto.
Il logo l’ho disegnato io. È una sorta di variazione su una scultura di Matisse e rappresenta un satiro danzante”.
Quale criterio adottate per scegliere, tra le proposte che vi giungono, i testi che entreranno a far parte delle vostre collane?
“Dipende molto dal tipo di proposta, se è di natura storica o narrativa, ma, in generale, non c’è un particolare criterio. In questo senso sono un editore vecchio stile, mi fido del mio istinto. Se mi piace dico sì, se non mi convince dico ‘ni’ e non pubblico. Finora, a parte in un paio di casi in cui ho clamorosamente sbagliato, mi è andata bene”.
È vero che non bisogna mai giudicare un libro dalla copertina, ma anche l’occhio vuole la sua parte, e i vostri libri, in quanto oggetti, sono capolavori. Riponete storie e poesie in bellissimi scrigni di carta e inchiostro.
In ambito editoriale quanto conta la forma e quanto la sostanza?
“Mi verrebbe da dire che ormai la forma conta più della sostanza, ma sarei ingiusto, anche perché forma e sostanza in letteratura sono la stessa cosa, un’idea scritta esiste esattamente nella forma che le si dà. Se cambia la forma cambia anche la sostanza dell’opera.
Certo, lavorare su un libro accattivante anche dal punto di vista visivo dà i suoi risultati, ma è faticosissimo. Devi sempre mediare fra le esigenze editoriali legate alla qualità del prodotto che ti contraddistingue, le richieste del pubblico, il cui sguardo, viziato dal kitsch, deve essere catturato immediatamente, e le necessità dell’autore che deve sentirsi rappresentato dalla cover e spesso, proprio perché emotivamente coinvolto, mette troppo becco nelle scelte complicando il lavoro a tutti”.
Qual è il libro che vi ha dato più soddisfazione?
“Se devo dirne uno, allora sempre l’ultimo, Sotto i denti, di Elena Zuccaccia, illustrato da Pierpaolo Miccolis. Una raccolta di poesie scritte per la morte del padre, più in generale una raccolta di poesie sul tema della perdita. È un libro molto intenso, vero, mi commuove”.
Curiosità, sorprese, progetti o consigli da condividere con i lettori di Agorà?
“Quest’anno stiamo lavorando a diversi libri. Tre sono sponsorizzati dalla BCC Locorotondo che ringrazio per il supporto.
Uno è Memorie del ‘900 di Mario Gianfrate, un libro sulla storia di Locorotondo nel ‘900, in tre volumi che usciranno a puntate. Poi c’è Garum, un ricettario antico scritto dall’archeologa Ursula Janssen e illustrato da fotografie di Manoocher Deghati, fotoreporter di fama internazionale. Infine, la traduzione italiana di un libro fondamentale, Far from the Church Bells di Anthony H. Galt, antropologo americano che, dopo aver vissuto per alcuni anni a Locorotondo, ha scritto ben due libri, tuttora studiati a Cambridge, sulla vita che vi si conduceva nel ‘900 (il primo interamente pubblicato sul n.50 della rivista ‘Locorotondo’). La traduzione è di Giovanni Maria Ferri e Giorgio Cardone”.
[Articolo pubblicato sulla rivista Agorà, numero Maggio 2023]