Gelsi rossi
EDITORIALE
L’editoriale di giugno del prof. Vincenzo Cervellera
L’albero di gelsi rossi è figlio di un dio minore.
Un tempo, insieme al gelso bianco, era sinonimo nella valle di diversità antròpofita. Oggi i rari esemplari che sopravvivono sono diventati pezzi da museo.
Ho la fortuna di conservare un albero di gelsi rossi in un mio podere in contrada Nardelli, un vecchio esemplare già vivo e vegeto ai tempi di mio nonno, Seppudd u’
Puscie, che a me, bimbo di quattro anni, indicando il rosso vivace dei gelsi diceva: “Ricorda che quello è il sangue di questa terra”.
Sono stato qualche giorno fa insieme a mia moglie, a raccoglierne una modica quantità, inzaccherandoci entrambi di succo rosso come in un film di Dario Argento.
Ecco: quello prevedeva il rito della escatologia orfica, imbrattarsi viso, mani,
vestiti e scarpe per poi, finalmente, assaggiare il succo profondo della terra.
E tornare bambini.
E riprendersi l’innocenza perduta.
L’innocenza di una terra che non merita la storia che ha avuto ed ha.
Campanilismi, divisioni, rancori personali spacciati per idealità politiche.
Facciamo così: vi invito sotto l’albero sacro del mio gelso rosso.
Non venite impomatati e con le cravatte di ordinanza, ma a torso nudo, affinchè il sangue delle nostre terre vi purifichi.
Poi ci siederemo sull’erba secca di agosto a mangiare il frutto rosso della memoria, e sarà come assaporare l’ostia della pace e della saggezza ritrovata.
[Foto in evidenza di Annagrazia Palmisano]